Il mantra dello SHOW, DON’T TELL
Forse avrete notato anche voi che il mantra dello “Show, don’t tell” viene ripetuto fino alla nausea in tutti manuali per scrittori, corsi di scrittura in presenza e online, gruppi social, forum e chi più ne ha più ne metta. Io stessa, da sempre entusiasta sostenitrice della scrittura immersiva, ho dedicato già nel lontano 2014 un articolo all’infodump, ossia al cosiddetto “spiegone”, il nemico per eccellenza della rappresentazione mostrata degli avvenimenti.
Per riassumere brevemente, con le parole di Wikipedia,
Show, don’t tell (Mostra, non raccontare) è un’espressione di tecnica narrativa di derivazione anglosassone. Viene utilizzata come raccomandazione per gli scrittori che fanno un uso eccessivo di spiegazioni e commenti a discapito dell’azione e dei dialoghi.
In pratica si tratta di un incitamento a scrivere in maniera da coinvolgere i cinque sensi del lettore per fargli vivere ciò che sta leggendo a un livello più profondo.
Naturalmente questa raccomandazione è condivisibile e auspicabile, tuttavia, di pari passo a questa spinta ossessiva verso il coinvolgimento sensoriale e al “qui e ora”, ho visto crescere anche la demonizzazione di qualsiasi altra forma di scrittura più raccontata. Il vecchio e caro stile alla “C’era una volta” è, appunto, vecchio, superato, e non incontra più il gusto di alcun lettore moderno. Oggi come oggi, scrivere un romanzo con un incipit descrittivo viene considerato una sorta di morte in culla per il neonato libro, con conseguente avvio all’insuccesso.
È davvero così? Confesso di averlo pensato. Non per nulla, la quasi totalità dei miei romanzi, inizia “in media res”.
Recentemente, però, ho deciso di leggere alcuni libri scegliendoli in base al loro livello di gradimento presso il pubblico. Ho quindi cercato espressamente romanzi di grossa fama nazionale e internazionale che siano stati accolti con entusiasmo dai lettori. Attenzione, non dalla cosiddetta “critica letteraria”, della quale me ne cale ben poco, ma proprio quelli acclamati tra i lettori e divenuti famosi anche grazie al passaparola.
E vi ho trovato qualcosa di totalmente, per me, inaspettato: gli spiegoni.
Da piccoli cappelli di spiegazioni – modello Wikipedia – ad ogni capitolo, fino a pagine e pagine di logorroico “tell” simil-filosofico. In libri di straordinario successo. Come potrete immaginare, sono rimasta alquanto perplessa.
I riassuntini li troviamo nel celeberrimo “I leoni di Sicilia” di Stefania Auci. Nel momento in cui sto scrivendo, il romanzo ha quasi 13.000 valutazioni su Amazon con una media di quattro stelle e mezzo. Un successo italiano che è rimbalzato per mesi su ogni forum e gruppo di lettori nei social con commenti entusiastici.
La Auci ha raccontato la storia dei Florio ponendo la sua lente di ingrandimento di narratrice all’interno della famiglia e delle vicissitudini umane, lasciando la Storia a fare da sfondo lontano, tanto impalpabile che, se non fosse stato per il dialetto siciliano, potrebbe essere stata ambientata altrove. Per inquadrare il contesto storico, l’autrice ha optato di inserire un riassunto all’inizio di ogni capitolo di cosa stava accadendo/era accaduto a livello politico nel periodo per poi concentrarsi sui drammi familiari.
Sicuramente era impossibile mostrare tutto (troppi avvenimenti storici), ma sarebbe stato possibile trovare espedienti per contestualizzare meglio la famiglia Florio all’interno della storia della Sicilia facendo affiorare i fatti dalla bocca e dall’operato dei personaggi? Sono altrettanto certa di sì. Tuttavia quella della Auci è stata semplicemente una scelta narrativa, uno stile personale. Vincente.
Spiegoni decisamente maggiori li troviamo nei romanzi di fantascienza di Adrian Tchaikovsky, autore di Children of Time (tradotto in Italia con I Figli del Tempo), vincitore del Arthur C. Clarke Award nel 2016. Al momento in cui sto scrivendo, Children of Time ha quasi 11.000 valutazioni su Amazon con una media di quattro stelle e mezzo.
Il romanzo di Tchaikovsky inizia con un primo capitolo dove la dottoressa Avrana Kern è impegnata in una conferenza su una nave spaziale prima dell’avvio di un progetto di terraformazione. Tramite le sue parole e i suoi pensieri che si intrecciano ad esse, abbiamo tutto il riassunto della situazione/evoluzione della razza umana fino al quel momento, del perché si trovano lì, cosa intendono fare e del perché – di lì a poco – andrà tutto in malora.
Children of Time è un brutto romanzo? Certo che no. È scritto male? Meno che meno. Tuttavia volevo soffermarmi sulla questione che abbiamo un primo capitolo descrittivo che farebbe oggi storcere il naso a più di un editor della nuova linea di pensiero. Ma ai lettori, con evidenza, no.
La tendenza di Tchaikovsky al raccontato si fa anche maggiore nel volume successivo Children of Ruin (tradotto in Italia con I Figli della Caduta), ma le idee sviluppate sono straordinarie e tengono incollati anche quando l’autore sembra quasi divagare per derive filosofiche.
Sorpresa è il celeberrimo The Witcher di Andrzej Sapkowski, con oltre 30.000 valutazioni su Amazon per il primo volume della saga con una media di 4.7 stelle. Ora, prenderò in considerazione il primo volume della saga, pubblicato in Italia con il titolo Il Guardiano degli Innocenti.
Dopo averne tanto sentito parlare, complice anche la famosa serie su Netflix (che non ho visto), ho voluto anch’io “entrare nell’avventura”.
Premetto, cosa fondamentale, che al momento attuale ho letto solo i primi due capitoli di questo libro, ma il fatto di non sapere nulla del famoso strigo, mi ha consentito di approcciarmi alla lettura del romanzo senza condizionamenti pregressi. Inoltre, le mie considerazioni vogliono essere proprio solo sull’incipit.
L’impressione che ho avuto è che il breve preambolo, rappresentato dalla scena del rapporto sessuale, sia stato messo successivamente per “acchiappare” il lettore. Lo stile stesso sembra più maturo del capitolo successivo (capitolo 1).
Ho appurato che la prima idea e il primo scritto di Sapkowski sullo Witcher risalgono al 1986, periodo che ben si accorda a un inizio di storia più descrittivo. Dopo la banale scena alla locanda (lui arriva, viene bullizzato perché sì, affetta tutti con spada&incantesimi), il nostro uomo viene portato al cospetto del castellano il quale si lancia in un lunghissimo pippone dove spiega vita morte e miracoli della famiglia del re, della nascita e morte della figlia strega in fasce, di come in questi quattordici anni sia cresciuta nella bara (really? Ma hai presente quanto è grande la bara di un neonato?) e ammazzi cinquecento persone all’anno (il che, considerando la densità di popolazione di un’ambientazione simil-medioevo credibile, doveva tradursi nell’aver fatto tabula rasa per un raggio di parecchi chilometri). In aggiunta, tutti i tentativi di altri strighi e bla bla bla. Insomma, un bello spiegone con tratti di as you know, Bob.
Sorrido al pensiero che se dietro questo titolo non ci fosse stato il nome di Sapkowski, con tutto il battage mediatico e televisivo, avrei chiuso il libro e sarei passata ad altro. Ma qui non conta quello che piace a me, ma quello che piace ai 15 milioni di lettori che lo hanno apprezzato. Merita senz’altro di proseguire la lettura.
In conclusione, continuerò con altri libri famosissimi. Devo dire che è molto interessante immergersi in stili così diversi tra loro e dal proprio.
Non credo ci siano leggi granitiche in merito alla scrittura: l’unica divisione sensata è quella tra libri scritti bene e libri scritti male. Potreste anche cominciare con “C’era una volta mia nonna Genoveffa ed era triste.” E questo senza necessariamente descrivere tutte le rughe della sua faccia per farle esprimere tristezza.
Se è una buona storia, la si leggerà volentieri.
2 Responses
Fantastica e condivisibile come al solito! Ogni eccesso è difetto e certe spiegazioni sono giuste e naturali.
Grazie Sergio!
Ho scritto questo blogpost anche perché mi stavo rendendo conto di scivolare io stessa in quell’eccesso. Leggendo, ora, molti romanzi in stile così vario, mi rendo conto che c’è (ancora) molto spazio per l’autore e molto per me da imparare. 🙂